La sostanza dell'effimero (il sottotitolo dato a questo blog nato con il nome di "araldicafrancescana") era il titolo di una mostra sugli abiti negli ordini religiosi in Occidente tenutasi a Roma nell'anno 2000. Con l'abito, specie quello religioso (e più in generale ecclesiastico), lo stemma ha in comune la funzione di indicare, dire, rimandare a un significato che sta oltre, ha in comune l'essere segno - per certi aspetti effimero in quanto di breve durata - di una realtà più sostanziale che vuole sinteticamente rappresentare.
Lo stesso temine "araldica", con cui si definisce la scienza che ha come oggetto il blasone o stemma, deriva dal nome di quell'antico funzionario - l'araldo appunto - il cui ufficio di rappresentanza era spesso caratterizzato da un particolare indumento con le insegne del rispettivo signore. A questa figura fa esplicito riferimento san Francesco nell'episodio narrato da Tommaso da Celano (1Cel 16: FF 346) e poi ripreso da san Bonaventura (LM II, 5: FF 1055), quando, vestito di cenci, ai manigoldi che brutalmente gli domandavano chi fosse, impavido e sicuro rispose: «Sono l’araldo del gran Re».
San Francesco d'Assisi, Benedizione a frate Leone, 1224ca lato A della chartula conservata presso la Basilica di S. Francesco in Assisi |
Lo stesso Poverello poi fece uso - come del resto, in un modo o nell'altro, facciamo tutti - di elementi simbolici per esprimere un'idea, un'esperienza, la sua stessa spiritualità. Basti pensare al tau che - probabilmente dopo l'ascolto del riferimento a Ez 9, 4 nel sermone con cui Innocenzo III inaugurò nel 1215 il Concilio Lateranense IV (Sermo IV : PL 217, 673-678; cf pagina di nostreradici.it) - Francesco cominciò a utilizzare per firmarsi «ogniqualvolta, o per necessità o per spirito di carità, inviava qualche suo scritto» (3Cel 159: FF 980). Resta a testimoniarlo la celebre benedizione a frate Leone su di un lato del frammento di pergamena (detto chartula) dove lo stesso Santo scrisse e contrassegnò con il tau la formula liturgica tratta da Nm 6, 24-26. Una sorta di sigillo personale, "segno manuale" come si diceva a quei tempi, con cui dava inizio alle sue azioni (Lm 2, IX; FF 1347) e con cui amava contrassegnare anche i luoghi dove dimoravano i suoi frati (3Cel 3: FF 828). Un sigillo, come un sigillo furono - stando all'interpretazione di san Bonaventura - le stigmate, quei segni «che lo rese simile al Dio vivente, cioè a Cristo crocifisso. Sigillo che fu impresso nel suo corpo non dall’opera della natura o dall’abilità di un artefice, ma piuttosto dalla potenza meravigliosa dello Spirito del Dio vivo» (LM Prologo 2: FF 1022). Immagine ripresa da Dante nell'XI canto del Paradiso in cui il sigillo torna nelle terzine dell'approvazione papale del propositum vitae (ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religione) e, appunto, della stigmatizzazione sul monte della Verna (nel crudo sasso intra Tevero e Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno).
La stigmatizzazione di san Francesco nel sigillo "piccolo" dell'Ordine dei Frati Minori Conventuali come presentato nelle Costituzioni dal 1628 al 1985 |
In questa prospettiva ci piace guardare allo stemma, in particolare a quello ecclesiastico che - ormai sempre meno riferito all'origini aristocratiche di chi se ne fregia - attraverso un linguaggio codificato nel tempo offre una sintetica presentazione della spiritualità che anima il servizio di chi lo adotta. Un servizio che è la vera (e direi unica) nobiltà nella chiesa (cf Mc 9, 30-37) dove, sull'esempio dell'unico Signore e Maestro (cf Mc 10, 45), "servire è regnare".
L'invito quindi è quello di non fermarsi al segno, di per sé effimero, ma di lasciarsi condurre da esso a ciò a cui - secondo il linguaggio che gli è proprio - vuole condurre e che è la sostanza su cui fissare lo sguardo. Del resto lo diceva la volpe al piccolo principe: «l'essenziale è invisibile agli occhi».
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen.
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